Tratta 8 (da stazione La Rustica Città a Via Prenestina 913)
Alle 13:01 un bel gruppetto di noi parte da Roma Tiburtina con il trenino diretto a Tivoli. L’appuntamento è alle 13:18 alla stazione La Rustica Città nome che, concordiamo, ci fa pensare ai panini dell’autogrill, quelle sfoglie prosciutto e fontina vendute a spicchi regolari.. Abbiamo fame e, in generale, noto che siamo agitati.
Partiamo in orario, e mentre il treno lascia la stazione Piccio conta quanti dei nostri ritardatari abbiamo lasciato sulla banchina; prenderanno il treno dopo.
Impiegamo un po’ a trovare tutti posto in uno stesso vagone. Intanto Piccio lamenta la mancanza del pranzo, Bianca mette le mani avanti dichiarando di essere «in prova», Maria non ha trovato la soia in agrodolce per il riso al curry.
La stazione La Rustica Città è come il far west, afosa e deserta. Attraversandola per andare a cercare un bar mi appunto un paio dei francesismi e delle perle di saggezza che adornano i muri: «..te amo!!! grazie d’esiste»; «Nel dubbio mena».
Ci sediamo sul marciapiede, appoggiati alla vetrina di un negozio di articoli per la casa (37 euro un servito da 38 piatti!) e pranziamo mentre gli altri arrivano via via. Sarà la mancanza di Lorenzo e del suo “spirito mangereccio di condivisione”, sarà che non è ancora arrivato Giorgio con la videocamera, ma il pic-nic di oggi con le macchine che ci passano davanti è un po’ triste.
Irene è il volto nuovo della tratta e la interrogo. È iscritta alla facoltà di architettura di Valle Giulia, dove sta preparando una tesi sui rom. Le chiedo come un tale progetto di ricerca possa collocarsi al termine di cinque anni di studi architettonici, ritenendo che sia più oggetto di interesse dell’ambito antropologico o sociale. Mi dichiara la stanchezza per un’università astratta e il suo desiderio di affrontare uno dei problemi concreti di Roma: l’emergenza abitativa. Lei e il suo amico sono leggermente imbarazzati, e a maggior ragione mi chiedono spiegazioni appena tiro fuori l’armamentario per attaccare sulla mappa, che anche oggi comporrò, il biglietto atac e una briciola di tarallo. (Che strana questa cosa: le mappe si “tracciano”, la mia si “compone”).
Sembra che il treno arrivato un quarto d’ora dopo il nostro abbia definitivamente completato il gruppo; partiamo.
Al termine di Via Achille Vertunni, «largo Augusto Corelli angolo Via Dameta», come preciserà lui stesso, ci aspetta Lucio Conte. È membro del comitato di quartiere e ce ne racconta la storia. Spiega come recentemente sia stato proposto il progetto di riqualifica di una zona che di giorno è luogo di aggregazione grazie alla forza sociale delle scuola elementare, dell’oratorio, del mercato, delle nuove panchine poste lungo la strada, mentre la sera le strade si svuotano e vi si riversano l’insicurezza e il pregiudizio. Conosce le nostre camminate, e ci invita a aprire gli occhi e a guardarci intorno per intuire i nervi scoperti del quartiere. Mentre parla ci conduce al campo nomadi di Via Dameta, dove sarà accolto con sinceri saluti. Intanto Panagiotis ci stupisce con la sua idea di segnare il percorso con il logo del progetto; bombolette e stencil alla mano agisce velocemente in maniera sicura, lasciando sul marciapiede di Via Dameta due spirali rosse attraversate dal polimorfico acronimo GRA.
Anche Margherita “nastro celeste” sta mappando. (Abbiamo un’inusuale sovrabbondanza di nomi floreali, e lei è quella che mi ha suggerito il libro sull’artista sarda, Maria Lai, che nel 1979 “legò” il paese di Ulassai con chilometri di nastro di raso). Io ho già cominciato il mio caotico decoupage mentre lei, con la tranquillità e con il sorriso che la caratterizza, camminando traccia stilizzati ma chiari disegni in rosso su un foglio di carta da pacchi. È piacevole vedere come, man mano che capiamo i meccanismi, riusciamo a mettere qualcosa di nostro e di espressivo in quello che stiamo facendo.
Al campo rom veniamo accolti da piccole vedette attaccate alla rete di recinzione: «Chi siete? Siete usciti ora da scuola?», ci grida Madonna, nome impegnativo e pochi peli sulla lingua. Duccio ci presenta agli abitanti della prima casa in muratura, alla destra del cancello dal quale siamo entrati, che nella loro piccola ma ariosa veranda ci accolgono per raccontarci del campo e del probabile sgombero per destinare la zona all’ampliamento della A24 (La Roma - L’Aquila). «Sono persone che quando ci si sta insieme si sta bene», commenta Duccio prima di lasciarci. Un signore grosso, con i baffi, spiega che loro sono calderasha provenienti dalla serbia. Dice che nel campo sono 110, ma dopo averlo attraversato penso che debbano essere almeno il doppio.
Giacomo, fresco di una tesi sui campi rom di Roma, è di nuovo il nostro mediatore. Mi incuriosisce il fatto che stavolta ponga la domanda opposta a quella rivolta ai sinti giostrai:
- Perché non vivete in roulotte?
- Non siamo abituati.
In effetti la risposta di Giacomo, quando poco prima gli ho chiesto se già conoscesse il campo, mi ha sorpreso: «No, fortunatamente. Sennò me l’avrebbero annullata». Più tardi, mentre siamo seduti sotto una fresca veranda a bere la coca-cola che una famiglia rom ci ha offerto insieme alla possibilità di entrare nella sua villetta, continua: «Questo è un campo che non ha paragoni, è fuori dagli standard». Abbiamo appena attraversato quello che a prima vista potrebbe essere un rustico villaggio vacanze, dalla struttura semplice ma solo apparentemente essenziale. Se in altri campi visitati abbiamo appurato che l’acqua e la corrente non siano un diritto, adesso ci stupiamo mettendo il naso in grandi salotti con vetrinette e televisori a schermo piatto, notiamo le parabole in bilico sui tetti, invidiamo la vasca idromassaggio di un pulitissimo bagno in mattonelle bianche. Non voglio essere maleducata, ma chiedo se tale impeccabile organizzazione sia conseguenza di una riuscita integrazione con il quartiere, che magari vi ha collaborato. «Noi non chiediamo niente a nessuno, ci danno un terreno e ci costruiamo». Sinceramente non so cosa pensare. Non ero mai entrata in contatto con i rom così come è avvenuto in queste ultime settimane, ma nonostante le diverse e varie realtà incontrate quella di oggi mi lascia perplessa. E come me, molti altri.
Madonna sgranocchia semi di girasole, le “semenche”, buttandone a terra le bucce. Ne attacco un paio sulla mappa che lei completa con un disegno firmato da destra verso sinistra. Un ragazzo alle nostre spalle la prende in giro ma poi la giustifica: «Tra un po’ andrà a scuola. Prima andava a rubare».
Margherita ha aperto la sua mappa su un tavolo e i bambini aspettano il turno del pennarello rosso per disegnarci sopra. Simone, del quale eravamo stati avvisati con un «No, lui no, che ti disegna cose sporche», sta rifinendo una macchina accanto ai fiori di Alex e Madonna e ai cuori alati di Claudia e Giulia. Quando salutiamo i nostri ospiti Irene ne prende i contatti per coinvolgerli nel suo lavoro di tesi.
Claudia mi prende per mano e mi chiede se può scrivere il suo nome sulla mappa, e mi terrà compagnia durante quello che sarà un tour del campo. Le domando cosa abbia fatto la mattina a scuola, curiosità che la fa sentire in dovere di “insegnarmi l’Umbria”. Lei spiega e io devo ripetere, usando le sue stesse parole per non farla arrabbiare: capoluogo e provincia, caratteristiche fisiche, attività, prodotti tipici.. È esitante sulle regioni confinanti, ma poco dopo torna con la cartina che stanno componendo in classe. «Ho sbagliato, guarda. Scrivi bene. Confina con Abruzzo, Marche, Toscana e Lazio, ecco». Maria ci fa una foto mentre, come due vallette, reggiamo i lati della cartina, e Claudia mi lascia l’indirizzo perché gliela spedisca.
Usciti dal campo ci troviamo all’incrocio tra Via Delia e Via Villa Santa Maria. Passiamo davanti a una serie di villette, ordinate e curate, con tanto di barboncini abbaianti, siepi profumate, alberi da frutto e cespugli di fiori. Arianna mi convince a attaccare sulla mappa un pezzo della pesca acerbissima che sta mordicchiando. Sento il bisogno di comunicare che anche la mia nonna si chiama Delia, come la via, e concentrata come sono a discutere con Margherita (la terza, la “Margherita-studentessa” del corso di arte civica) dei nomi delle rispettive nonne non mi accorgo che al numero 106 di Via Delia siamo stati invitati per un caffè da due gentili signore che stanno lavorando carciofi, finocchi e melanzane per farli sott’olio. «Ma senti che mi chiede questa», si stupisce una di loro quando domando un paio di bucce per la mappa.
Giacomo è disperato:
- E dai Piccio, andiamo!
- Dove?
- A camminare! ma che è oggi?!
- Ma un caffè non si rifiuta..
Ripartiamo dopo che Valerio, uno dei nipoti, ha commentato la spiegazione del nostro giro con un «Ma voi siete scemi».
Costeggiamo il raccordo e passiamo sotto a un cavalcavia. Mi segno i nomi delle vie: Via Tufara, Via Fillide, Via Damone. Ora che scrivo mi sembra di ricordare che Fillide sia un nome leggendario e lo vado a cercare sulla garzantina Mitologia.
Nel farsi letteralmente strada tra un campo di altissime spighe (lunghe più di me che sono 1 metro e 68) rimango indietro con Matteo, Pietro e Margherita e ci imbarchiamo in una serie di considerazioni più o meno costruttive sul modo di comporre la mia mappatura fisica. Pietro commenta delicatamente le annotazioni di Matteo: «Ma che gli stai rompendo il cazzo per la grafica?», ma bene o male i tre “architetti” hanno una visione comune. Mi sono segnata le osservazioni fatte:
• Necessità di curare meglio la “base” della mappa. Disapprovano il cartoncino bianco in quanto troppo neutro, e le possibili alternative potrebbero essere un foglio con una grana più bella, una tavoletta di compensato, la cartina dell’area che stiamo percorrendo.
• Metodi di attaccatura: l’esubero di scotch trasparente è «una pecionata», troppo evidente e disordinato. Meglio, allora, usare del nastro adesivo colorato che almeno diventa elemento integrato della mappa. A quel punto funzionerebbero anche i biglietti atac come estremi del percorso, elementi che secondo Matteo stonano perché «eccessivamente definiti» rispetti agli altri assemblaggi. Margherita suggerisce un collante più minimalista come la spillatrice, ma le faccio notare che sarebbe utile solo per un numero davvero esiguo di elementi.
• Creare una composizione più ordinata, magari raccogliendo le tracce strada facendo e mettendole insieme in un secondo momento, studiandone la disposizione («Le cose più pesanti sul fondo»). A questo ribatto prontamente, perché se le osservazioni estetiche sono illuminanti e mi fanno riflettere, d’altra parte non voglio mutare lo scopo di comporre la mappa cammin facendo, vedendola “espandersi” a seconda della strada fisica e non. Penso che solo con questo metodo del “raccolto e attaccato” possa trasmettere quel qualcosa in più di mio, di estemporaneo, che si perderebbe se agissi “conservando e ordinando”.
Camminando Matteo rialza il sentiero d’erba da noi calpestata in modo da depistare Luca, che con la sua macchina fotografica in spalla rimane sempre in fondo. Finiamo nel parcheggio di un albergo Novotel, e mentre sono seduta in terra per mappare Giorgio mi richiama al mondo con un «Quanto mi dai per questo?». Sventola quella che sembra un’etichetta per valigie con su scritto un nome orientale, traccia dei pullman che riversano negli albergoni periferici folle di turisti. Ringrazio e attacco. Arianna con la pesca, il nostro cameraman, i tre “colleghi architetti” e le loro osservazioni: mi fa piacere pensare che gli altri partecipino al “gioco” che mi sta facendo percepire le camminate in modo diverso.
Costeggiamo il marciapiede del supermercato Metro della zona Collatina. La strada è molto trafficata, passano soprattutto camion e autotreni che alzano un continuo polverone. Noto che le siepi che fiancheggiano la cancellata di quella che sembra una fabbrica sono così polverose da sembrare spruzzate con lo spray argentato. Eppure devono essere state potate da poco perché nell’aria è forte l’odore di alloro e in terra ci sono mucchi di foglie non ancora secche.
La polvere e la terra secca, rossa e leggera, continuano nelle zone in costruzione lungo il raccordo. L’aridità di questo paesaggio fa da contrappunto ottico al bellissimo prato di fiori gialli di cui non vediamo nemmeno la fine. Ne attacco uno. Luca puntualizza che ce ne sono anche altri di colori diversi, ma le margherite “mi emozionano di più”.
Tra gli alberi di un boschetto incontriamo un ragazzo del gruppo di rumeni che qui si sono accampati in baracche di legna e teli di plastica e di stoffa. Matteo si informa: viene dalla Romania, dove sabato tornerà perché là ha moglie e figli.
- Ma quanti anni hai?
- 18.
Ha provato a cercare lavoro nei cantieri ma, più che al fatto che non lo prendano perché non parla bene l’italiano, credo che semplicemente abbia fatto due conti e dedotto che non gli è proficuo. Da quando è a Roma il chiedere le elemosina è «andato bene, non conviene fare altro», e spiega a Matteo dove lavora tutti i giorni. Ci fa vedere il passaporto e ci fa notare di non avervi fatto scrivere che è uno zingaro romeno.
Il lago visto sulla mappa si rivela poco più di un bozzo. Vorrei lasciare una traccia d’acqua sulla mappa ma quando sento dire che è passata una serpe mi convinco che non sia poi così importante.
Ci troviamo a camminare in un alto prato di trifogli, dove i piedi affondano come se fosse schiuma. La scia che lasciamo camminando tutti in fila mi richiama la rivoluzionaria arte di Richard Long e, ora che scrivo, la vado a ricercare sulla “bibbia” Walkscapes. Semplicemente, anche la nostra erba calpestata è A Line Made by Walking. Continuo a pensare a questa cosa mentre Fabrizio ci propone di sdraiarci tra i trifogli e di alzarci tutti insieme al suo segnale. Chiedo a Gabriele di fotografare la sagoma che ho lasciato e, guardandomi intorno, vedo che l’intero prato ospita i negativi dei nostri corpi. «Con il tempo la scultura sarebbe scomparsa» (H. FULTON, cit. in F. CARERI, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Torino, Einaudi, 2006).
È una situazione di calma di riposo, e quando Piccio chiede se qualcuno vuole leggere una poesia procedo con quello che è diventato il “rito del nastro celeste”. Stavolta non è Maria Lai la nostra traccia, e leggo nel silenzio una poesia di Pasolini: « Correvo nel crepuscolo fangoso..». È un bel momento, mi emoziona. Lego il nastro celeste al fico cresciuto accanto alla grossa cisterna d’acqua davanti alla quale ci siamo fermati, giusto in tempo prima che un gruppo di cani abbaianti ci inducano a tornare indietro.
Panagiotis disegna il logo su un muro di cemento. Se fin’ora ha usato gli stencil, adesso agisce sul muro direttamente con lo spray. Usa quello con il getto fine per tracciare i contorni della spirale rossa, che riempie con la bomboletta dal tratto più massiccio. Lo guardiamo in silenzio.
Ci fermiamo a chiedere informazioni a un signore che sta lavorando nell’orto di casa.
- Ma quella è la Prenestina?
- Sì.
- E allora siamo arrivati!
- Beati voi!
Mi viene in mente lo sbalordito Pinocchio di Comencini quando, arrivato davanti all’inimmaginabile distesa d’acqua, chiede conferma di essere giunto nel posto giusto. Ho un vago infantile ricordo di quel film, e più ci penso e più mi convinco che tale scena, forse, me la sono solo immaginata.
In fondo allo stretto viottolo uscito dai campi c’è davvero la nostra meta. Non ci resta altro che avviarci verso il numero civico 913 dove ci aspetta Andrea, studente di Piccio e occupante dell’ex salumificio Fiorucci. Non ci neghiamo una pausa gelato al bar vicino a “La casa della luce”. Mi fa sorridere il fatto che l’“agognato” break avvenga accanto a una tale insegna così promettente e speranzosa.
“Mustafà e i quaranta ladroni” - nome, ci spiega Andrea, dato al turno di guardia - non vogliono farci passare e ricorriamo alla telefonata per farci venire a prendere al cancello della fabbrica. Arriva la nostra guida, entriamo.
«Nei pressi di Via Prenestina un ex impianto industriale è stato occupato da una cinquantina di persone e dai Blocchi Precari Metropolitani. La fama di case non tocca più solo i soggetti «storicamente» svantaggiati». L’articolo de “l’UnitàRoma” del 5 aprile 2009, uscito nove giorni dopo l’occupazione della fabbrica di salumi in disuso da più di vent’anni, mi fa leggere nero su bianco lo sconforto e le aspettative di cui Andrea ci racconta accogliendoci in uno spazio che si vuole strappare alla speculazione edilizia per far fronte a quel problema metropolitano di cui mi parlava Irene poche ora prima: di nuovo, ecco l’emergenza abitativa.
Il turno di guardia è seduto su una panchina appoggiata al muro, sulla sinistra dell’ampia strada interna per la quale saranno passati centinaia e centinaia di camion di maiali (entrando) e di salumi (uscendo). Sarà formato da una quindicina di persone tra le quali non mancano bambini su tricicli. La nostra guida è euforica, ci accoglie, ci presenta, ci spiega.
Andrea è un ciclone, una di quelle persone che puoi definire “un personaggio” e noi ci limitiamo a seguirlo. Il tour della fabbrica inizia da quello che oggi è il gabbiotto delle sentinelle e dalle stanze attigue adibite a dormitori. Il calendario copre l’intera giornata con turni di guardia di quattro ore ciascuno, e Andrea ride mentre ci spiega le tre tipologie dei “picchetti”, i turni di guardia. Il “marocchino” prende il nome dagli africani che durante il turno dormono sulle panchine all’aperto; l’”orizzontale” è quello di chi si accontenta della tradizionale brandina nel gabbiotto; “in piedi” è quello diurno.
Quando entriamo nella fabbrica vera e propria il caldo e gli escrementi di piccione ci tolgono il fiato. Gli ampi e alti saloni nei quali fino a una ventina d’anni fa si svolgevano le varie fasi di lavorazione delle carni ora sono bui e spogli, e non riesco ad immaginare i prossimi progetti che Andrea ci descrive velocemente ma con entusiasmo. Qua la biblioteca, là la sala studio, poi la sala per i computer, quella per i giochi, la zona musica, la zona relax.. Il tetto del complesso ha una ringhiera di ferro che si affaccia sul cortile, e Andrea vi si sporge a braccia aperte mugolando le famose note di Titanic. L’edificio al di là del muro che cinge l’ex fabbrica, che adesso, dall’alto, riusciamo a vedere, è un ex laboratorio chimico in cui dovrebbe nascere il vero centro sociale “figlio” dell’occupazione in corso. Piccio pensa ai rifiuti della vecchia attività e commenta: «Chissà che ci sarà la sotto..». Prima di scendere passando da una stretta porta arrugginita Andrea ci mostra fiero gli assemblaggi di tubi chiodati costruiti per bloccare le porte. Michele si lascia andare un «Ma queste sono macchine da guerra!». Torniamo nel cortile dove ci vengono spiegate le piccole ingegnosità dettate dall’arte dell’arrangiarsi: dalla parete si allunga un pratico tavolino, vecchi rottami sono stati trasformati in un funzionale barbecue, il tubo in ferro della fontanella fa dei giri contorti ma ne esce acqua fresca e potabile.
Andrea è pronto per la visita guidata ai blocchi abitativi ma mi arrendo, e con Maria e Giacomo diserto in cerca di un autobus. Sono stanca e “piena” delle tante cose fatte oggi e non riesco più a seguire il ciclone vivente che ci trascina da una parte all’altra della fabbrica. In più sono scontrariata dalla risposta sguaiata che Andrea mi ha dato quando gli ho chiesto quando la fabbrica fosse stata occupata. Ho capito che l’hai già detto più volte, vorrà dire che non go sentito. Insomma, come si dice dalle mia parti, “sto tirando il calzino” e divento irritabile. È meglio che mi riavvii verso casa.
La fermata del 501 è vicinissima, l’autobus passa subito e inizio il percorso di ritorno verso Porta Maggiore. Dato che l’ultima volta lo sentivo discutere con Maria su questo fenomeno di onnipresenza faccio notare a Giacomo che anche sulla Prenestina ci sono le indicazioni per l’Auditorium. «È incredibile, sono ovunque. E poi quando arrivi vicino un c’è più un cazzo». Anche ora che scrivo questa cosa mi fa sorridere..
Partiamo in orario, e mentre il treno lascia la stazione Piccio conta quanti dei nostri ritardatari abbiamo lasciato sulla banchina; prenderanno il treno dopo.
Impiegamo un po’ a trovare tutti posto in uno stesso vagone. Intanto Piccio lamenta la mancanza del pranzo, Bianca mette le mani avanti dichiarando di essere «in prova», Maria non ha trovato la soia in agrodolce per il riso al curry.
La stazione La Rustica Città è come il far west, afosa e deserta. Attraversandola per andare a cercare un bar mi appunto un paio dei francesismi e delle perle di saggezza che adornano i muri: «..te amo!!! grazie d’esiste»; «Nel dubbio mena».
Ci sediamo sul marciapiede, appoggiati alla vetrina di un negozio di articoli per la casa (37 euro un servito da 38 piatti!) e pranziamo mentre gli altri arrivano via via. Sarà la mancanza di Lorenzo e del suo “spirito mangereccio di condivisione”, sarà che non è ancora arrivato Giorgio con la videocamera, ma il pic-nic di oggi con le macchine che ci passano davanti è un po’ triste.
Irene è il volto nuovo della tratta e la interrogo. È iscritta alla facoltà di architettura di Valle Giulia, dove sta preparando una tesi sui rom. Le chiedo come un tale progetto di ricerca possa collocarsi al termine di cinque anni di studi architettonici, ritenendo che sia più oggetto di interesse dell’ambito antropologico o sociale. Mi dichiara la stanchezza per un’università astratta e il suo desiderio di affrontare uno dei problemi concreti di Roma: l’emergenza abitativa. Lei e il suo amico sono leggermente imbarazzati, e a maggior ragione mi chiedono spiegazioni appena tiro fuori l’armamentario per attaccare sulla mappa, che anche oggi comporrò, il biglietto atac e una briciola di tarallo. (Che strana questa cosa: le mappe si “tracciano”, la mia si “compone”).
Sembra che il treno arrivato un quarto d’ora dopo il nostro abbia definitivamente completato il gruppo; partiamo.
Al termine di Via Achille Vertunni, «largo Augusto Corelli angolo Via Dameta», come preciserà lui stesso, ci aspetta Lucio Conte. È membro del comitato di quartiere e ce ne racconta la storia. Spiega come recentemente sia stato proposto il progetto di riqualifica di una zona che di giorno è luogo di aggregazione grazie alla forza sociale delle scuola elementare, dell’oratorio, del mercato, delle nuove panchine poste lungo la strada, mentre la sera le strade si svuotano e vi si riversano l’insicurezza e il pregiudizio. Conosce le nostre camminate, e ci invita a aprire gli occhi e a guardarci intorno per intuire i nervi scoperti del quartiere. Mentre parla ci conduce al campo nomadi di Via Dameta, dove sarà accolto con sinceri saluti. Intanto Panagiotis ci stupisce con la sua idea di segnare il percorso con il logo del progetto; bombolette e stencil alla mano agisce velocemente in maniera sicura, lasciando sul marciapiede di Via Dameta due spirali rosse attraversate dal polimorfico acronimo GRA.
Anche Margherita “nastro celeste” sta mappando. (Abbiamo un’inusuale sovrabbondanza di nomi floreali, e lei è quella che mi ha suggerito il libro sull’artista sarda, Maria Lai, che nel 1979 “legò” il paese di Ulassai con chilometri di nastro di raso). Io ho già cominciato il mio caotico decoupage mentre lei, con la tranquillità e con il sorriso che la caratterizza, camminando traccia stilizzati ma chiari disegni in rosso su un foglio di carta da pacchi. È piacevole vedere come, man mano che capiamo i meccanismi, riusciamo a mettere qualcosa di nostro e di espressivo in quello che stiamo facendo.
Al campo rom veniamo accolti da piccole vedette attaccate alla rete di recinzione: «Chi siete? Siete usciti ora da scuola?», ci grida Madonna, nome impegnativo e pochi peli sulla lingua. Duccio ci presenta agli abitanti della prima casa in muratura, alla destra del cancello dal quale siamo entrati, che nella loro piccola ma ariosa veranda ci accolgono per raccontarci del campo e del probabile sgombero per destinare la zona all’ampliamento della A24 (La Roma - L’Aquila). «Sono persone che quando ci si sta insieme si sta bene», commenta Duccio prima di lasciarci. Un signore grosso, con i baffi, spiega che loro sono calderasha provenienti dalla serbia. Dice che nel campo sono 110, ma dopo averlo attraversato penso che debbano essere almeno il doppio.
Giacomo, fresco di una tesi sui campi rom di Roma, è di nuovo il nostro mediatore. Mi incuriosisce il fatto che stavolta ponga la domanda opposta a quella rivolta ai sinti giostrai:
- Perché non vivete in roulotte?
- Non siamo abituati.
In effetti la risposta di Giacomo, quando poco prima gli ho chiesto se già conoscesse il campo, mi ha sorpreso: «No, fortunatamente. Sennò me l’avrebbero annullata». Più tardi, mentre siamo seduti sotto una fresca veranda a bere la coca-cola che una famiglia rom ci ha offerto insieme alla possibilità di entrare nella sua villetta, continua: «Questo è un campo che non ha paragoni, è fuori dagli standard». Abbiamo appena attraversato quello che a prima vista potrebbe essere un rustico villaggio vacanze, dalla struttura semplice ma solo apparentemente essenziale. Se in altri campi visitati abbiamo appurato che l’acqua e la corrente non siano un diritto, adesso ci stupiamo mettendo il naso in grandi salotti con vetrinette e televisori a schermo piatto, notiamo le parabole in bilico sui tetti, invidiamo la vasca idromassaggio di un pulitissimo bagno in mattonelle bianche. Non voglio essere maleducata, ma chiedo se tale impeccabile organizzazione sia conseguenza di una riuscita integrazione con il quartiere, che magari vi ha collaborato. «Noi non chiediamo niente a nessuno, ci danno un terreno e ci costruiamo». Sinceramente non so cosa pensare. Non ero mai entrata in contatto con i rom così come è avvenuto in queste ultime settimane, ma nonostante le diverse e varie realtà incontrate quella di oggi mi lascia perplessa. E come me, molti altri.
Madonna sgranocchia semi di girasole, le “semenche”, buttandone a terra le bucce. Ne attacco un paio sulla mappa che lei completa con un disegno firmato da destra verso sinistra. Un ragazzo alle nostre spalle la prende in giro ma poi la giustifica: «Tra un po’ andrà a scuola. Prima andava a rubare».
Margherita ha aperto la sua mappa su un tavolo e i bambini aspettano il turno del pennarello rosso per disegnarci sopra. Simone, del quale eravamo stati avvisati con un «No, lui no, che ti disegna cose sporche», sta rifinendo una macchina accanto ai fiori di Alex e Madonna e ai cuori alati di Claudia e Giulia. Quando salutiamo i nostri ospiti Irene ne prende i contatti per coinvolgerli nel suo lavoro di tesi.
Claudia mi prende per mano e mi chiede se può scrivere il suo nome sulla mappa, e mi terrà compagnia durante quello che sarà un tour del campo. Le domando cosa abbia fatto la mattina a scuola, curiosità che la fa sentire in dovere di “insegnarmi l’Umbria”. Lei spiega e io devo ripetere, usando le sue stesse parole per non farla arrabbiare: capoluogo e provincia, caratteristiche fisiche, attività, prodotti tipici.. È esitante sulle regioni confinanti, ma poco dopo torna con la cartina che stanno componendo in classe. «Ho sbagliato, guarda. Scrivi bene. Confina con Abruzzo, Marche, Toscana e Lazio, ecco». Maria ci fa una foto mentre, come due vallette, reggiamo i lati della cartina, e Claudia mi lascia l’indirizzo perché gliela spedisca.
Usciti dal campo ci troviamo all’incrocio tra Via Delia e Via Villa Santa Maria. Passiamo davanti a una serie di villette, ordinate e curate, con tanto di barboncini abbaianti, siepi profumate, alberi da frutto e cespugli di fiori. Arianna mi convince a attaccare sulla mappa un pezzo della pesca acerbissima che sta mordicchiando. Sento il bisogno di comunicare che anche la mia nonna si chiama Delia, come la via, e concentrata come sono a discutere con Margherita (la terza, la “Margherita-studentessa” del corso di arte civica) dei nomi delle rispettive nonne non mi accorgo che al numero 106 di Via Delia siamo stati invitati per un caffè da due gentili signore che stanno lavorando carciofi, finocchi e melanzane per farli sott’olio. «Ma senti che mi chiede questa», si stupisce una di loro quando domando un paio di bucce per la mappa.
Giacomo è disperato:
- E dai Piccio, andiamo!
- Dove?
- A camminare! ma che è oggi?!
- Ma un caffè non si rifiuta..
Ripartiamo dopo che Valerio, uno dei nipoti, ha commentato la spiegazione del nostro giro con un «Ma voi siete scemi».
Costeggiamo il raccordo e passiamo sotto a un cavalcavia. Mi segno i nomi delle vie: Via Tufara, Via Fillide, Via Damone. Ora che scrivo mi sembra di ricordare che Fillide sia un nome leggendario e lo vado a cercare sulla garzantina Mitologia.
Nel farsi letteralmente strada tra un campo di altissime spighe (lunghe più di me che sono 1 metro e 68) rimango indietro con Matteo, Pietro e Margherita e ci imbarchiamo in una serie di considerazioni più o meno costruttive sul modo di comporre la mia mappatura fisica. Pietro commenta delicatamente le annotazioni di Matteo: «Ma che gli stai rompendo il cazzo per la grafica?», ma bene o male i tre “architetti” hanno una visione comune. Mi sono segnata le osservazioni fatte:
• Necessità di curare meglio la “base” della mappa. Disapprovano il cartoncino bianco in quanto troppo neutro, e le possibili alternative potrebbero essere un foglio con una grana più bella, una tavoletta di compensato, la cartina dell’area che stiamo percorrendo.
• Metodi di attaccatura: l’esubero di scotch trasparente è «una pecionata», troppo evidente e disordinato. Meglio, allora, usare del nastro adesivo colorato che almeno diventa elemento integrato della mappa. A quel punto funzionerebbero anche i biglietti atac come estremi del percorso, elementi che secondo Matteo stonano perché «eccessivamente definiti» rispetti agli altri assemblaggi. Margherita suggerisce un collante più minimalista come la spillatrice, ma le faccio notare che sarebbe utile solo per un numero davvero esiguo di elementi.
• Creare una composizione più ordinata, magari raccogliendo le tracce strada facendo e mettendole insieme in un secondo momento, studiandone la disposizione («Le cose più pesanti sul fondo»). A questo ribatto prontamente, perché se le osservazioni estetiche sono illuminanti e mi fanno riflettere, d’altra parte non voglio mutare lo scopo di comporre la mappa cammin facendo, vedendola “espandersi” a seconda della strada fisica e non. Penso che solo con questo metodo del “raccolto e attaccato” possa trasmettere quel qualcosa in più di mio, di estemporaneo, che si perderebbe se agissi “conservando e ordinando”.
Camminando Matteo rialza il sentiero d’erba da noi calpestata in modo da depistare Luca, che con la sua macchina fotografica in spalla rimane sempre in fondo. Finiamo nel parcheggio di un albergo Novotel, e mentre sono seduta in terra per mappare Giorgio mi richiama al mondo con un «Quanto mi dai per questo?». Sventola quella che sembra un’etichetta per valigie con su scritto un nome orientale, traccia dei pullman che riversano negli albergoni periferici folle di turisti. Ringrazio e attacco. Arianna con la pesca, il nostro cameraman, i tre “colleghi architetti” e le loro osservazioni: mi fa piacere pensare che gli altri partecipino al “gioco” che mi sta facendo percepire le camminate in modo diverso.
Costeggiamo il marciapiede del supermercato Metro della zona Collatina. La strada è molto trafficata, passano soprattutto camion e autotreni che alzano un continuo polverone. Noto che le siepi che fiancheggiano la cancellata di quella che sembra una fabbrica sono così polverose da sembrare spruzzate con lo spray argentato. Eppure devono essere state potate da poco perché nell’aria è forte l’odore di alloro e in terra ci sono mucchi di foglie non ancora secche.
La polvere e la terra secca, rossa e leggera, continuano nelle zone in costruzione lungo il raccordo. L’aridità di questo paesaggio fa da contrappunto ottico al bellissimo prato di fiori gialli di cui non vediamo nemmeno la fine. Ne attacco uno. Luca puntualizza che ce ne sono anche altri di colori diversi, ma le margherite “mi emozionano di più”.
Tra gli alberi di un boschetto incontriamo un ragazzo del gruppo di rumeni che qui si sono accampati in baracche di legna e teli di plastica e di stoffa. Matteo si informa: viene dalla Romania, dove sabato tornerà perché là ha moglie e figli.
- Ma quanti anni hai?
- 18.
Ha provato a cercare lavoro nei cantieri ma, più che al fatto che non lo prendano perché non parla bene l’italiano, credo che semplicemente abbia fatto due conti e dedotto che non gli è proficuo. Da quando è a Roma il chiedere le elemosina è «andato bene, non conviene fare altro», e spiega a Matteo dove lavora tutti i giorni. Ci fa vedere il passaporto e ci fa notare di non avervi fatto scrivere che è uno zingaro romeno.
Il lago visto sulla mappa si rivela poco più di un bozzo. Vorrei lasciare una traccia d’acqua sulla mappa ma quando sento dire che è passata una serpe mi convinco che non sia poi così importante.
Ci troviamo a camminare in un alto prato di trifogli, dove i piedi affondano come se fosse schiuma. La scia che lasciamo camminando tutti in fila mi richiama la rivoluzionaria arte di Richard Long e, ora che scrivo, la vado a ricercare sulla “bibbia” Walkscapes. Semplicemente, anche la nostra erba calpestata è A Line Made by Walking. Continuo a pensare a questa cosa mentre Fabrizio ci propone di sdraiarci tra i trifogli e di alzarci tutti insieme al suo segnale. Chiedo a Gabriele di fotografare la sagoma che ho lasciato e, guardandomi intorno, vedo che l’intero prato ospita i negativi dei nostri corpi. «Con il tempo la scultura sarebbe scomparsa» (H. FULTON, cit. in F. CARERI, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Torino, Einaudi, 2006).
È una situazione di calma di riposo, e quando Piccio chiede se qualcuno vuole leggere una poesia procedo con quello che è diventato il “rito del nastro celeste”. Stavolta non è Maria Lai la nostra traccia, e leggo nel silenzio una poesia di Pasolini: « Correvo nel crepuscolo fangoso..». È un bel momento, mi emoziona. Lego il nastro celeste al fico cresciuto accanto alla grossa cisterna d’acqua davanti alla quale ci siamo fermati, giusto in tempo prima che un gruppo di cani abbaianti ci inducano a tornare indietro.
Panagiotis disegna il logo su un muro di cemento. Se fin’ora ha usato gli stencil, adesso agisce sul muro direttamente con lo spray. Usa quello con il getto fine per tracciare i contorni della spirale rossa, che riempie con la bomboletta dal tratto più massiccio. Lo guardiamo in silenzio.
Ci fermiamo a chiedere informazioni a un signore che sta lavorando nell’orto di casa.
- Ma quella è la Prenestina?
- Sì.
- E allora siamo arrivati!
- Beati voi!
Mi viene in mente lo sbalordito Pinocchio di Comencini quando, arrivato davanti all’inimmaginabile distesa d’acqua, chiede conferma di essere giunto nel posto giusto. Ho un vago infantile ricordo di quel film, e più ci penso e più mi convinco che tale scena, forse, me la sono solo immaginata.
In fondo allo stretto viottolo uscito dai campi c’è davvero la nostra meta. Non ci resta altro che avviarci verso il numero civico 913 dove ci aspetta Andrea, studente di Piccio e occupante dell’ex salumificio Fiorucci. Non ci neghiamo una pausa gelato al bar vicino a “La casa della luce”. Mi fa sorridere il fatto che l’“agognato” break avvenga accanto a una tale insegna così promettente e speranzosa.
“Mustafà e i quaranta ladroni” - nome, ci spiega Andrea, dato al turno di guardia - non vogliono farci passare e ricorriamo alla telefonata per farci venire a prendere al cancello della fabbrica. Arriva la nostra guida, entriamo.
«Nei pressi di Via Prenestina un ex impianto industriale è stato occupato da una cinquantina di persone e dai Blocchi Precari Metropolitani. La fama di case non tocca più solo i soggetti «storicamente» svantaggiati». L’articolo de “l’UnitàRoma” del 5 aprile 2009, uscito nove giorni dopo l’occupazione della fabbrica di salumi in disuso da più di vent’anni, mi fa leggere nero su bianco lo sconforto e le aspettative di cui Andrea ci racconta accogliendoci in uno spazio che si vuole strappare alla speculazione edilizia per far fronte a quel problema metropolitano di cui mi parlava Irene poche ora prima: di nuovo, ecco l’emergenza abitativa.
Il turno di guardia è seduto su una panchina appoggiata al muro, sulla sinistra dell’ampia strada interna per la quale saranno passati centinaia e centinaia di camion di maiali (entrando) e di salumi (uscendo). Sarà formato da una quindicina di persone tra le quali non mancano bambini su tricicli. La nostra guida è euforica, ci accoglie, ci presenta, ci spiega.
Andrea è un ciclone, una di quelle persone che puoi definire “un personaggio” e noi ci limitiamo a seguirlo. Il tour della fabbrica inizia da quello che oggi è il gabbiotto delle sentinelle e dalle stanze attigue adibite a dormitori. Il calendario copre l’intera giornata con turni di guardia di quattro ore ciascuno, e Andrea ride mentre ci spiega le tre tipologie dei “picchetti”, i turni di guardia. Il “marocchino” prende il nome dagli africani che durante il turno dormono sulle panchine all’aperto; l’”orizzontale” è quello di chi si accontenta della tradizionale brandina nel gabbiotto; “in piedi” è quello diurno.
Quando entriamo nella fabbrica vera e propria il caldo e gli escrementi di piccione ci tolgono il fiato. Gli ampi e alti saloni nei quali fino a una ventina d’anni fa si svolgevano le varie fasi di lavorazione delle carni ora sono bui e spogli, e non riesco ad immaginare i prossimi progetti che Andrea ci descrive velocemente ma con entusiasmo. Qua la biblioteca, là la sala studio, poi la sala per i computer, quella per i giochi, la zona musica, la zona relax.. Il tetto del complesso ha una ringhiera di ferro che si affaccia sul cortile, e Andrea vi si sporge a braccia aperte mugolando le famose note di Titanic. L’edificio al di là del muro che cinge l’ex fabbrica, che adesso, dall’alto, riusciamo a vedere, è un ex laboratorio chimico in cui dovrebbe nascere il vero centro sociale “figlio” dell’occupazione in corso. Piccio pensa ai rifiuti della vecchia attività e commenta: «Chissà che ci sarà la sotto..». Prima di scendere passando da una stretta porta arrugginita Andrea ci mostra fiero gli assemblaggi di tubi chiodati costruiti per bloccare le porte. Michele si lascia andare un «Ma queste sono macchine da guerra!». Torniamo nel cortile dove ci vengono spiegate le piccole ingegnosità dettate dall’arte dell’arrangiarsi: dalla parete si allunga un pratico tavolino, vecchi rottami sono stati trasformati in un funzionale barbecue, il tubo in ferro della fontanella fa dei giri contorti ma ne esce acqua fresca e potabile.
Andrea è pronto per la visita guidata ai blocchi abitativi ma mi arrendo, e con Maria e Giacomo diserto in cerca di un autobus. Sono stanca e “piena” delle tante cose fatte oggi e non riesco più a seguire il ciclone vivente che ci trascina da una parte all’altra della fabbrica. In più sono scontrariata dalla risposta sguaiata che Andrea mi ha dato quando gli ho chiesto quando la fabbrica fosse stata occupata. Ho capito che l’hai già detto più volte, vorrà dire che non go sentito. Insomma, come si dice dalle mia parti, “sto tirando il calzino” e divento irritabile. È meglio che mi riavvii verso casa.
La fermata del 501 è vicinissima, l’autobus passa subito e inizio il percorso di ritorno verso Porta Maggiore. Dato che l’ultima volta lo sentivo discutere con Maria su questo fenomeno di onnipresenza faccio notare a Giacomo che anche sulla Prenestina ci sono le indicazioni per l’Auditorium. «È incredibile, sono ovunque. E poi quando arrivi vicino un c’è più un cazzo». Anche ora che scrivo questa cosa mi fa sorridere..
FRANCESCA
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