mercoledì 3 giugno 2009

Rendiconto narrativo

USCITA 6
23 maggio 2009
da Cinecittà a Anagnina, dove abbandoniamo mentre "l'attraversamento" continua..

Guardando la prima e l’ultima delle foto che ho scattato durante la giornata mi viene da ridere: io e Francesco in metro, la mattina, con la faccia cerea addormentata; io e Francesco seduti su un marciapiede sotto alla fermata dell’autobus, nel pomeriggio, con il volto arrossato e stanco.
In maniera più o meno volontaria oggi partecipa all’uscita anche “il fidanzato”, cosa che mi fa estremamente piacere perché mi permette di renderlo presente in un’attività solo parzialmente traducibile attraverso la descrizione e il rendiconto.
Punto d’incontro è la metro Cinecittà, davanti agli studios, e quando arriviamo Giulia sta già presentando ai presenti il programma della giornata. Non siamo molti (23, conterà Lorenzo) ma il bello dell’uscita del sabato è che al gruppo dei fidelizzati si unisce sempre qualche presenza nuova. Faccio subito in tempo a spillare i biglietti della metro sulla mappa, cosa che Michele disapproverà perché - sostiene - «presenza monotona e ripetitiva» di ogni mio assemblaggio. Ci rifletto un po’; ritengo che il personale spostamento, “il viaggio prima del viaggio”, sia un elemento mappabile perché già parte integrante del percorso che inizierà proprio dal luogo in cui questo finisce (ovvero il luogo di ritrovo). Ho notato che quando prendo i mezzi per raggiungere il punto d’incontro della tratta o dell’uscita, magari in zone piuttosto distanti, percepisco il tragitto in un’ottica diversa rispetto a quando quotidianamente mi muovo nella città. Durante un incontro in facoltà con Ascanio Celestini l’attore ha parlato della concezione di “spostamento” nella metropoli, dove per il cittadino è fondamentale il punto di partenza, quello di arrivo e la durata del tragitto. Le coordinate di tempo e spazio sono assorbite dal ritmo quotidiano e l’uomo non sa più «attraversare i luoghi», cosa che - anzi - diviene un ostacolo nello spostamento dal posto in cui mi trovo a quello da raggiungere. «Quello che sta in mezzo al mio punto di partenza e quello di arrivo non è spazio, è tempo. È per questo che non riesco più a raccontare la mia città». È nella “ottica Stalker” che sui mezzi con i quali raggiungerò l’appuntamento preferisco non alienarmi leggendo o distraendomi come mio solito, ma penso al percorso della giornata, a come mapperò, guardo fuori dal finestrino e riconosco con piacere percorsi già fatti.. Se il tragitto da Furio Camillo a Cinecittà fosse stato valutato solo come un “viaggio di 15 minuti e 9 fermate metro” sarebbe stata insignificante la presenza di due biglietti atac sulla mia mappa del giorno, ma rivedo la situazione e so che non è stato per niente così. Era la prima volta che io e Francesco prendevamo insieme la metropolitana romana, lui mi ha fatto un sacco di domande sulla giornata che ci aspettava, mi ha chiesto chi ci sarebbe stato e coda avremmo visto, mi ha aiutato a rifinire il “nastro celeste”, ci scoperti un po’ emozionati per questa “partecipazione di coppia” a una mia attività universitaria un po’ atipica.. Insomma, io il “viaggio prima del viaggio” l’ho vissuto e dunque i biglietti atac hanno dignità di presenza!
Il colpo di genio di oggi sarà il mappare sui due volumi delle Pagine Bianche di Roma. È stato Francesco a suggerirmi di ricercare sull’elenco telefonico i punti di sosta e i nomi delle persone che via via incontreremo, in modo da dare al percorso dei punti fissi attorno ai quali comporre la mappa. La cosa mi ha subito entusiasmato: bene, siamo in due, porteremo un volume ciascuno. Cerco sull’elenco “Cinecittà” e dopo averlo cerchiato di rosso comincio a mappare su quella pagina.
Entrando da un passaggio nella rete ci avventuriamo nel parco di Villa Settebassi che la guida di Roma del Touring Club descrive come una «tra le maggiori del suburbio, articolata in tre nuclei e servita da un acquedotto di cui rimangono vari tronconi». Un estratto dal libro Roma archeologica (Roberto Egidi, Roma, ADN Kronos libri, 2005) ne spiega il nome attuale, toponimo «già documentato nell’alto Medioevo e che sembra possa derivare da Settimio Basso, prefetto dell’epoca di Settimio Severo, probabile possessore della grande villa». Passate le solitarie rovine dietro le quali contrastano i palazzoni della città incontriamo Duilio D’Ascanio, vecchio custode della tenuta Torlonia, che ci accoglie sotto il suo pergolato insieme al fratello minore e alla cognata. «È 82 anni che sono qui, dal 1927». Sono originari di Avezzano, comune principale dell’altopiano del Fucino, area dell’Abruzzo che comprende 37 comuni della provincia dell’Aquila. L’opera di bonifica promossa da Alessandro Torlonia nel 1854 gli fece conferire il titolo di Principe del Fucino, e per l’occasione molti contadini della zona vennero chiamati a lavorare a mezzadria i grandi possedimenti romani della famiglia. Duilio ci spiega l’attività di raccolta e allevamento che veniva condotta nei 45 ettari di terreno assegnato, compresa la vecchia casa colonica da loro resa abitabile e oggi in loro concessione finché sono in vita. «Poi so’ arrivati i Beni Culturali e c’hanno levato tutto. E meno male che c’abbiamo l’abitazione». Il terreno e la proprietà sono stati venduti dall’agenzia immobiliare, divenutane proprietaria, nel 1985, anni in cui i Beni Culturali iniziarono a promuovere una vasta campagna per la realizzazione del Parco Regionale dell’Appia Antica, istituito tre anni più tardi. «E c’hanno levato tutto, l’uso della terra, non ci hanno riconosciuta la mezzadria. Ma guarda che siamo antichi anche noi!». Duilio e il fratello ripensano a quando, da ragazzi, andavano al cinema al Quadraro e alle feste in cui «si ballava alla paesana, col fazzoletto in mezzo»; la porta di casa era sempre aperta nonostante il via vai di chi andava e veniva dai campi. Gli chiedono se negli anni ’50 ci fosse un rapporto tra gli abitanti del quartiere e Cinecittà. «E come no! Facevamo le comparse con i carri, con i buoi, con le galline.. Una volta mi hanno vestito anche da Garibaldi», però non sa dirci il titolo del film. I ricordi passano da quelli della giovinezza in campagna ai cinque anni di prigionia in Africa, dopo la sconfitta inglese a El Amein: i 1800 chilometri di ritirata a piedi, i campi di concentramento a Alessandria d’Egitto, il caldo.. Mentre anche noi “ci ritiriamo”, attraversando il viale di cipressi che da Via Tuscolana conduce alla tenuta, Francesco riflette sulla disponibilità delle persone a raccontare la propria vita a estranei, quando invece il dialogo con coloro che hanno quotidianamente vicino è spasso quasi nullo.
Non mi ricordo né cosa insegnasse né a quale università, ma mentre camminiamo “il professore” spigliato che per la prima volta oggi si è unito alle nostre camminate ci spiega che la mezzadria, tipo di contratto agrario di residuo medievale, in Italia è stata abolita negli anni ’60. Francesco, di origine calabrese, porta a esempio la grande influenza sociale che ha avuto nel meridione, lasciando una scia di rapporti gerarchici che hanno faticato a estinguersi. Inoltre la breve durata del contratto (solitamente annuale) non motivava gli investimenti dei contadini sui propri terreni, non avendo la garanzia di veder confermata la loro situazione.
Proseguiamo sulla Tuscolana. Staccando un lungo filo d’erba dal ciglio della strada Francesco mi fa vedere come da bambino catturava le lucertole, intrappolandole con un cappio e portandole in giro come se fossero al guinzaglio. Ride: «So’ cresciuto “selvaggio”».
Arriviamo a Anagnina e attraversiamo la stazione degli autobus. Ora Francesco mi fa notare che la maggior parte degli annunci attaccati a muri o ai pilastri delle tettoie sono scritti in romeno, proprio perché quella è una zona altamente abitata da immigrati. Me lo confermano i membri dell’Associazione Romania che incontriamo alla fine del piazzale, sotto la tettoia di quello che sembra essere il loro “quartiere generale” dal quale tirano fuori una decina di birre che ci dividiamo. Margherita riflette: «La mia colazione di oggi è un cornetto e una birra». Daniel, il più loquace tra i nostri ospiti, è poco chiaro nel spiegare di cosa si occupino oltre alla gestione di trasporti di prodotti alimentari tra le loro città e la capitale, e ci invita alla festa del giorno dopo dove «ci sarà qualcosa da vedere». Intanto Costantino ci mostra il suo “date generale”, la carta d’identità, sulla quale sono annotati tutti i lavori che ha svolto negli anni: il carabiniere, il parrucchiere, il donatore di sangue. Proprio oggi che scrivo (28 maggio 2005) leggo su www.roma.repubblica.it un articolo di Elena Stancanelli, scrittrice che indaga la città fuori le mura. Mi colpiscono alcune righe scritte dopo una giornata al quartiere che si trova «in fondo alla linea rossa»: «I rumeni ci impongono uno sforzo di comprensione maggiore di altri stranieri, sono meno facili da accogliere. Perchè hanno fama di bere e usare il coltello, ma soprattutto per quanto ci somigliano. La lingua, l’aspetto, persino il modo di vestire: i rumeni siamo noi qualche decina di anni fa. E nessuno ama ricordare la miseria del proprio nonno».
Attraversiamo un campo di forasacchi e malva e raggiungiamo - o meglio - ci ritroviamo, in Via Comandini. All’incrocio con Via Emilio Brusa passiamo sotto a un cavalcavia e ci fermiamo al supermercato “Scacco Matto”. La sosta è piuttosto lunga e mi offre l’occasione giusta per inaugurare una nuova “base” della mappa: trovo sull’elenco il nome del negozio e, anche se l’indirizzo è sbagliato perché si sono da poco trasferiti, mi sembra ugualmente indicativo.
Quando il gruppo si ricompone giriamo in Via Simonelli, ma realizzato che in realtà alcuni dovevano essere ancora a comprarsi il pranzo li aspettiamo davanti al civico 115, dove una signora di colore pulisce a suon di musica la veranda del negozio di prodotti africani. La signora sorridente con i riccioli neri, che spesso è con noi nelle uscite del sabato, offre a tutti un sacchetto di olive nere cotte al forno.
In Via Marco Gambarucci ci fermiano davanti alla veranda di una famiglia rom, ma stanno mangiando e non ci tratteniamo molto. Poco più avanti ci avventiamo su un piccolo nespolo dai frutti maturi, cosa che mi lascia con le mani lucide e estremamente collose. Francesco e il professore che poco prima ci illustrava la mezzadria ora parlano di contratti a progetto, e di come anche l’incertezza di questa tipologia di impiego poco motivi il lavoratore a investirvi energie.
Passata una serie di villette di recente costruzione, graziose nei loro mattoncini rossi, arriviamo in Via Petrucelli; alla fontana beviamo, ci rinfreschiamo e posso lavarmi le mani.
Dal grande edificio con le finestre colorate che ora ci troviamo davanti esce una maestosa musica e, curiosi, saliamo le scale che ci portano al primo piano. Pensavamo fosse una scuola e rimaniamo stupidi al vedere una grande sala allestita per ospitare l’eterogenea orchestra che sta suonando. Alle loro spalle un grande schermo bianco, sul quale si susseguono immagini astratte. Siamo alle Officine Marconi e loro sono l’Orchestra di Piazza Vittorio, ci spiega un ragazzo dal carnato scuro che ha notato la nostra presenza spaesata. Stanno eseguendo le prove di un adattamento del “Flauto magico” di Mozart, spettacolo prodotto da Roma Europa che debutterà a Lione il 5 giugno e che sarà a settembre all’Olimpico. Aspettando che il gruppo si raduni di nuovo ci sediamo all’ombra, e Giulia ci spiega che i campi che vediamo dietro a noi saranno uno dei poli di espansione delle nuove centralità di Roma. Ormai è caldo, sono le 14, ho fame. Propongo la pausa pranzo ma non viene accolta; dobbiamo prima raggiungere Decatlon, nel cui parcheggio sono accampati i rom calderascha sgomberati da Testaccio nel 2007. Già ne vediamo l’insegna in lontananza, e per raggiungerlo passiamo compatti da quella zona fangosa prima della quale un contadino ci grida un incoraggiante: «Attenti ai varani!».
Scavalchiamo una cancellata e ci interriamo nel parcheggio del Carefour, sulle cui rampe Michele e Giacomo si sfidano in una gara di carrelli spingendo “le Margherite” che vi sono balzate dentro.
Attraversiamo il campo nomadi per raggiungere l’ultimo camper dove incontriamo Aldo Odorovich, il responsabile, e ci ammassiamo tutti sotto la sua veranda. Mi guardo intorno: sembra che ogni famiglia abbia un camper, bianco, nuovo, pulito, alla cui ombra giocano i bambini vicino ai piani di cottura. Al centro del parcheggio, in fila, brillano sotto il sole belle macchine dalle targhe recenti. Mangiamo mentre Aldo ci racconta dell’organizzazione del campo e della sua attività di lavoro e raccolta del ferro (Giulia e Lorenzo gli ricordano di avergli portato da tempo una teiera da lucidare, che lui non ha ancora fatto).
Mentre Giulia illustra i successivi spostamenti guardo il viso spossato di Francesco e lo uso come scusa per tornare verso casa; anche io sono già stanca. Salutiamo alla metro Anagnina, dove siamo arrivati con l’autobus e dalla quale il gruppo proseguirà per le nuove zone di Osteria del Curato.
Appena ci sediamo nella metropolitana, destinazione Furio Camillo, apro lo zaino per prendere l’acqua. Francesco: «Ma oggi non hai nemmeno attaccato il nastro celeste. Me lo leggi ora?».

FRANCESCA

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