mercoledì 10 giugno 2009

Rendiconto narrativo

Tratta 11
3 giugno 2009

È bello quando ci incontriamo strada facendo, prima di raggiungere il punto d’incontro. Salgo sul 702 mentre ha già il motore acceso, e la tratta di oggi sembra iniziare proprio da qui, dal capolinea della stazione Laurentina, dove “noi stalker” arrivati da ogni parte di Roma iniziamo a fare gruppo.
Sull’autobus riconosco Gianni, ragazzo napoletano amico di una amica; sta preparando la tesi in sociologia mettendo in pratica “lo zonzo” in una zona industriale della sua città e, conosciuto il “cammino del G.R.A.”, parteciperà alle tratte e alle uscite. Paolo mi saluta e mi chiede come sto; ogni tanto qualche personaggio in fuga dalla “soffitta di Via Libetta” si unisce alle camminate, e oggi la partecipazione e la disponibilità di questo nuovo architetto mi colpiranno molto.
Continuando la lettura del testo sull’artista sarda Maria Lai, per preparare la “traccia celeste” di oggi, mi sono soffermata su un passaggio che ha suggerito il metodo di mappatura per la camminata: dopo che il paese era stato “legato” dai nastri celesti «tutti coloro che furono coinvolti in questo gioco furono costretti a capire che Ulassai, la sua anima, la sua intima essenza, la sua identità erano rappresentati molto meglio e assai più dai nastri che non dalle case e dalle strade, perché un paese è prima di tutto un gruppo eterogeneo di persone che comunicano attraverso lo spazio». Ho quindi comprato cinque alti nastri di diverso colore, uno per ogni ipotetica ora di camminata (dalle 16 alle 21), e pensando a noi come «un gruppo eterogeneo di persone che comunicano attraverso lo spazio» mapperò sulle fasce di raso che forse, nel loro piccolo, trasmetteranno un po’ della «anima», dell’«intima essenza» e dell’«identità» della camminata. La camminata parte dal Conad Superstore di Via Ardeatina e propongo di iniziare con il verde perché è un colore che “porta bene”, ma commentano che «se iniziamo con il verde speranza è la fine, lasciamolo per ultimo». «Sì, dai, rosso sangue. Partiamo battaglieri!». Detto fatto: zic, zic, inizio a spillare sul nastro scarlatto.
Piccio chiede se qualcuno ha dato un occhio alla mappa di oggi, e noi facciamo un po’ i vaghi. «È la prima volta che vengo senza sapere da dove veniamo e dove andiamo». Ci riuniamo intorno alla cartina di Margherita mentre aspettiamo Lorenzo e Giulia, che abbiamo visto perdere l’autobus a Laurentina. Intanto si sono formati diversi gruppetti di socializzazione e non mancano le conversazioni eterogenee; Luca, il ragazzo di Laura, ci parla dell’ultimo libro di Enrico Brizzi (scritto a quattro mani con Marcello Fini) sul loro viaggio a piedi da Roma a Gerusalemme, edito per la «nuova collana di Ediciclo dedicata alla letteratura di viaggio a piedi». Il testo è La via di Gerusalemme. In cammino da Roma alla città tre volte santa (Portogruaro, Ediciclo, 2009) e ho vagato piacevolmente sul blog della casa editrice - dal quale cito - che si presenta come uno spazio virtuale per «tutti quelli che guardano il mondo da un altro punto di vista rallentando i ritmi per soffermarsi, osservare, respirare l’aria seguendo le frequenze della natura. Il motto è: “non si va mai abbastanza piano”» (vd. http://www.ediciclo.it/blog/?p=370). Mi piace che questi incontri settimanali siano fertili e arricchenti sotto vari punti di vista.. Mentre ci chiediamo se Elio Germano abiti ancora a Corviale, e ne ripercorriamo la carriera dalla pubblicità del Duplo al recente boom, Giacomo, come sempre, ci richiama all’ordine: «E dai Piccio, partiamo? Parliamone camminando!».
E allora eccoci in fila sulla Via Ardeatina, pronti a fermarci 10 metri più avanti in Via del Centro del Bivio, di fronte a una madonnina in una nicchia fiorita. Poco più avanti un cartello avverte che questa è una «zona di sorveglianza per malattia vescicolare dei suini. Ordinanza Ministeriale del 12 aprile 2008». Panagiotis lascia il nostro logo compiendo quello che mi sembra decisamente un atto vandalico (ora non usa più gli stencil ma spruzza direttamente con le bombolette). Attraversiamo il grande parcheggio di “Titocci noleggi” mentre Peter Lang mi racconta di come si occupi di «diffondere la dottrina-Stalker» e della sua collaborazione con lo storico gruppo fiorentino Superstudio. Adesso la strada è stranamente chiusa da un grosso cancello marrone e Margherita suona ai campanelli del civico 65 (tutti col cognome “Patrizi”) spiegando chi siamo e chiedendo di farci passare. Paolo si è fermato a parlare con un signore davanti a una villetta e mi chiede di segnare che la legna è venduta a 15 euro al quintale. Vaghiamo disordinati tra gli olivi, il terreno è in salita; Peter chiede se quella che vediamo sulla collina alle nostre spalle sia Tivoli ma Piccio pensa si tratti di Frascati. Camminiamo su un sentiero «di bei coccetti» (Laura) che ci porta a un deposito di cassonetti verdi della spazzatura. Deviamo e riprendiamo la strada asfaltata (è sempre Via del Centro del Bivio, l’ho chiesto a una signora che spingeva un passeggino). «Vedi com’è ben curata la zona, questo è proprio un borghetto». Siamo in una strada tranquillissima, silenziosa, dove si susseguono belle ville dai giardini fioriti “straripanti” dai cancelli. Stacco un fiore per fissarlo sul nastro rosso ma, messo nell’agenda di Paolo per schiacciarlo (come i fiori di tiglio che staccherò poco più avanti), a fine serata mi scorderò di riprenderlo. Una signora ci avverte che la strada è senza sfondo e, per non inoltrarmi in una spiegazione sul nostro “spirito di scavalcamento”, mi limito a sorridere, ringraziare e rimanere sul vago: «Grazie, magari non è un problema». Giriamo infatti sulla destra e avanziamo di nuovo per campi. Panagiotis inizia a camminare con una lunga spiga infilata nel cappello e passiamo le sbarra del civico 240 di Via del Poggio (la scritta fatta a mano, sulla cassetta della posta, è molto sbiadita e mi avvicino per decifrarla). Spillo il rametto aromatico che Paolo mi porge («Siamo passati da una siepe di rosmarino e nessuno se n’è accorto») ma Francesco mi avverte che sono le 17:01 e che il nastro rosso «è scaduto»; Piccio e Giacomo consigliano di «proseguire per gradazione» e quello della fascia oraria 17-18 è, di conseguenza, rosa.
Si avvicinano due degli indiani che lavorano alla casetta rossa e, facendo gran uso dell’arte chironomica, cerchiamo di spiegare che non importa se la strada finisce poco più avanti e che chiediamo solo il permesso attraversare i loro campi. Dubito che, soprattutto il signore col turbante, abbia interpretato i gesti e le frasi minime di Piccio, ma ci sorridono e ci fanno segno d’andare. Paolo mi chiede se ho trovato qualcosa che «testimoni il posto» e, al mio dissenso, afferma che andrà «a razzolare un po’ in giro a cercare»; a questo punto lo nomino ufficialmente co-mappatore della giornata. Cerchiamo su una vecchia agenda del 1999, trovata su una mensola polverosa in una stanza abbandonata del casale, la pagina con la data di oggi e la attacco con la spillatrice.
Sul muro è attaccato un grosso quadrato di compensato dipinto di verde. Piccio: «Questa è arte moderna».
Attraversiamo una distesa arida, tufacea, che chiedo a Arianna di definire: «Terreno spianato in preparazione per una nuova costruzione. Questi sono “passaggi”, no? Si vede proprio l’impronta dell’uomo che distrugge e ricrea tutto. Là: prato, spighe, fiori..poi spianata arida».La zona è costeggiata da alti alberi fioriti. «Questo è il periodo della maggiore fioritura del tiglio, e noi ce lo mettiamo, no? Così ci ricordiamo l’odore» (Paolo). Il mio collaboratore stacca un rametto bianco che metterà tra le pagine dell’agenda mentre spiega a me a Arianna che il tiglio fa parte delle storiche alberature urbane della capitale.
Passando da un buco della rete ci troviamo in Via Tor Chiesaccia (ho chiesto a due bambini che giocavano a pallone nel giardino), strada asfaltata in salita con belle case dalle siepi curate. È qui che stacco un rametto di ginepro dalla decorazione vegetale a mo’ di ponte di una villetta. Questa volta la via è realmente senza sfondo e pure noi siamo costretti a arrenderci. Torniamo indietro e proseguiamo su un altro tratto di Via Tor Chiesaccia (civici oltre il 50); ora le ville sono ancora più grandi.
Luca, arrotolando un nastro di plastica, «cerca di rendere meno pericoloso» il “cappello” di fil di ferro che ha trovato in terra e messo in testa a Laura. Attraverso un fosso a passo svelto e senza guardare in basso, camminando su un ponte fatto da grate legate a pali di legno. Odio le inferriate con l’acqua sotto, mi fanno venire i brividi alle braccia. Ora siamo in un vivaio con grandi capannoni in plastica numerati e dopo averlo attraversato ci prepariamola scavalcare il cancello che lo separa dalla strada (che scoprirò essere sempre Via di Tor Chiesaccia). Intanto ci sembra una cosa “innocente e naturale” allungare le mani verso le ciliegie rosse che ci tentano dai due grossi alberi lungo la recinzione, ma la signora che scende dalla macchina mentre ci vede scavalcare la sua proprietà non sembra essere d’accordo. Cerchiamo di spiegare che siamo casualmente rimasti chiusi nella proprietà..
Lorenzo: «Non siamo venuti a rubare ciliegie, stiamo facendo il giro del raccordo a piedi».
Signora: «E allora siete ancora più esauriti!».
In Via Castel di Leva ci fermiamo per una pausa gelato e Paolo mi consiglia di segnarmi i nomi dei negozi che vediamo dalla nostra posizione: “Caffè di Leva”, gioielleria “Oro et laboro” (inventiva degna di stima), estetista “Corona” («Chissà se è lo stesso del fotografo?»). Francesco svolge il suo compito di timer e mi avvisa dell’ora: 18:04, change di nastro. Intanto tagliamo sulla sinistra e ci addentriamo tra l’erba altra: bello iniziare il nastro giallo con una spiga dorata! Paolo osserva quello rosa che sto avvolgendo e commenta che «le tracce di parte agreste predominano».
Avanziamo in fila tra le altissime spighe che ci sommergono. Sento un forte odore di finocchietto selvatico ma non riesco a vedere da dove venga: ovunque, davvero, solo grano e cielo. Piccio si volta e guarda le testoline che sbucano tra le spighe: «Che belli che siamo».
Troviamo un casale abbandonato e il gruppo vi entra. Li vedo, attraverso la porta, muoversi cauti nella stanza scura dove si siederanno mentre alcuni si concedono una sigaretta. Sono a telefono e sto raccontando del percorso fatto fin lì mentre raccolgo rametti di menta che, a casa, metterò a seccare. Mi dicono che Panajotis abbia immortalato su una parete la perla di saggezza regalataci da Giorgio durante l’ultima camminata, uscita che non ho rendicontato causa perdita del blocchetto degli appunti (porca miseria). Mentre avanzavamo a fatica tra una distesa di spighe alle spalle di Via Appia Antica Panajotis, che camminava davanti al nostro fedele cameraman, gli ha chiese se avrebbe preferito passare avanti per fare una ripresa «senza niente», ovvero senza inquadrare continuamente il suo testone di riccioli. «Senza niente non esiste», rispose Giorgio profondamente, e dopo che io e Luca scoppiammo a ridere per il tono convinto della sentenza quello è diventata lo slogan della camminata.
Appena riemergiamo dal campo su Via di Castel di Leva Gianni mi porge un pezzo di carta da parati dal delicato motivo floreale, che ha staccato nel casale abbandonato. Adesso camminiamo sul bordo della strada finché non prendiamo il vicoletto che ci porta nell’aia di una grande tenuta in stato d’abbandono. Davanti alla porta, dietro a un grosso nespolo, è seduto Luigi, il guardiano. Arianna prende gli appunti al posto mio: siamo in uno dei poderi della famiglia Torlonia, proprietari che, racconta lo spigliato signore, ha visto due volte in 35 anni. I 120 ettari sono ancora proprietà del principe adesso residente in Via della Conciliazione, ma è da più di vent’anni che la zona è in stato d’abbandono. Luigi è arrivato a Roma nel 1962, da Amandola, nelle Marche, per lavorare a mezzadria parte dei 400 ettari che i nobili avevano sull’Appia Antica, ma «oramai di pecorai so rimasto solo io!».
Luigi: «Voi fate er giro del raccordo, no?, ma quando vien notte che fate?».
Matteo: «Dormiamo qui!».
Il guardiano ride. Ci porta una bottiglia d’acqua fresca e ci invita a magiare le nespole, ai cui rami attacco il “nastro celeste” della giornata mentre Matteo e Giacomo immaginano che grandi feste sarebbero da fare nel casale.
Intanto Francesco mi ricorda lo scatto dell’ora e inauguro il nuovo nastro, stavolta celeste. Camminando racconta a me e Arianna del workshop “Wood in construction and architecture” che frequenterà a Helsinki dal 2 agosto. Siamo di nuovo tra i campi, tra il più classico e affascinante accoppiamento bucolico: spighe e papaveri. Incrociamo diversi casali abbandonati (ne conterò cinque) prima di fermarci su una collina verde: oltre gli alti forasacchi si perdono i campi coltivati e, davanti a noi, si stagliano le ultime palazzine di Via Castel di Leva. Il tramonto impasta il paesaggio e ci viene naturale osservare in silenzio, quasi per non disturbare, mentre scattiamo fotografie che magari rivedremo a casa, sullo schermo del computer, senza che riescano a trasmetterci di nuovo la bellezza e la pace del momento.
Proseguiamo camminando sul crinale di una cava di tufo quando, improvvisamente, dalla collina appare un assurdo groviglio di strade e di rotatorie di recente costruzione. Con tanto di cartelli indicanti i nomi delle vie (Via Enrico Bompiani, Via Alfredo Capelli..) delimitano aree di prossima costruzione e la solitudine della distesa grigia mi fa pensare a un onirico paesaggio di De Chirico. Intanto si sono fatte le 20 e Laura avverte che «è il momento della sparanza»: tiro fuori il nastro verde, l’ultimo della giornata, e lo inizio con una fascetta in plastica gialla servita per il trasporto di materiale edile. Mentre camminiamo mi segno i nomi delle vie che, controllerò a casa con una ricerca su internet, sono dedicate a matematici e fisici italiani: Via Paolo Ruffini, Via Bruno Rossi, Via Tullio Viola, Via Ugo Monaco.. I pastori maremmani che da lontano sembravano tranquilli ci stanno a poco a poco venendo incontro abbaiando, e un signore su una Mercedes verde modello 200E, dopo averci rimproverato l’incoscienza di vagare in quella zona, ci scorta attraverso il quartiere in costruzione (ecco là il gregge di pecore: i cani stanno solo facendo il loro dovere). Camminando in gruppo dietro la macchina sembriamo un corteo funebre, e con Laura e Luca chiudo la fila.
Laura, guardando il paesaggio: «Certo che questa zona è un tripudio di sperimentazione architettonica»
Luca: «Oh, ma un ce n’è uno uguale di palazzi».
Intanto Luca ci fa notare che stimo giocando a “un-due-tre-stella” con uno dei cagnoni dal pelo sporco, che ci segue e si ferma ogni volta che ci voltiamo.
Usciti dal “vuoto urbano” ci troviamo in Via Pia Nalli, dove ci fermiamo per fare il punto della situazione. Ormai sono quasi le 21, Giorgio non è attrezzato per le riprese in notturna ma gran parte del gruppo non sembra troppo dispiaciuto di concludere qui la tratta. L’entusiasmo di Matteo nel proporre di proseguire verso Laurentina 38 non ha effetto su di me che già mi guardo intorno per cercare una fermata dell’autobus, ma a quel mi chiama la mamma sul cellulare. Mi allontano per rispondere, mi distraggo, vedo che il gruppo si divide, seguo Giacomo, il mio “vicino di casa”, fiduciosa che anche lui stia tornando verso la Via Appia. Per farla breve: illusa di marciare verso casa scopro di essermi aggregata al gruppo sbagliato quando mi ritrovo sulla Via Laurentina, altezza supermercato Elite. A questo punto..andiamo a vedere i benedetti ponti di Laurentina 38! (Sinceramente faccio un po’ di resistenza ma poi cedo..). Da Via Linati ci addentriamo nel quartiere, e una mia osservazione sui nuovi e slanciati palazzoni bianchi fa sentire Arianna in dovere di spiegarmi che la dicitura “38” non indica l’anno di costruzione degli edifici ma i piani regolatori di zona (a quel punto, ripensando “al Groviera” mussoliniano, evito di confessare la convinzione che Eur 70 fosse un giovane quartiere alle soglie dei quaranta anni..). A questo punto mi faccio raccontare dei ponti di Laurentina, progetti falliti di un’idea di collegamento e socializzazione tra i grandi palazzoni paralleli che il signore cui chiediamo informazioni presenta come «una zona in cui non stare di sera». Però la pizzeria sul secondo ponte è buona davvero e, avviandoci verso la metro Laurentina io, Luca, Giacomo e Michele lasciamo Arianna, Margherita e Matteo seduti al tavolino di plastica. Prima però termino il nastro verde spillandoci un pezzo del calzino di Matteo: bucato sul calcagno e costellato di forasacchi anche lui racconta la camminata di oggi.

FRANCESCA

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