giovedì 7 maggio 2009

Rendiconto narrativo

5 maggio 2009
Tratta 7

Oggi mappo. Mi sono trasferita da pochi giorni sulla Via Appia e il primo giro nel quartiere è stato in cerca di una cartoleria. Nello zaino metto due cartoncini bianchi, pennarelli, scotch, spillatrice, macchina fotografica, taccuino e penna. La settimana scorsa ho fatto l’errore di dire a Margherita, quasi con superbia, che «io non faccio mappe perché non sono un architetto». Ci siamo addentrate in un’animata chiacchierata tra le colline terrose dietro l’area commerciale di Porte di Roma, dove mi sono aperta a una nuova visione della cartografia. Il “rimprovero” della mia collega architetto mi ha spinto oltre quella pretesa di oggettività che io ritenevo primaria e che, non avendo le competenze per rispettarla, mi faceva affermare la mia impossibilità a mappare i nostri percorsi. Spinta da una dose di orgoglio e dalla voglia di mettermi in gioco sfruttando le personali capacità ho pensato di attaccare e riportare su un cartoncino bianco A4 i segni del cammino, in modo da avere tracce “fisiche” dei diversi terreni percorsi e delle loro conformità, delle realtà incontrate, delle attività svolte. Francesco, il mio ragazzo che oggi era in viaggio per partecipare a un convegno a Genova, telefona mentre mi sto ingegnando a “scotchare” sul foglio un escremento di pecora; sinceramente mi vergogno un po’ e la butto sul ridere: «Sono una ragazza seria eh io, sono all’università, mica come te che stai andando in vacanza in Liguria!». Anche a Giorgio, quando mi chiederà di spiegare alla telecamera cosa sto facendo, dirò che mi sono attrezzata per la mia “mappatura da bambina dell’asilo”. Mi accorgo di sminuire la cosa, ma in realtà sono molto contenta di ciò che sto facendo. Mi sembra di aver trovato il mio modo “non letterario” di rendicontare mostrando che «io sono qui», «io partecipo».
L’appuntamento è alle 13 all’incrocio tra Via Nomentana e Via di Casale San Basilio. Il gruppo è in ritardo perché ha aspettato gli studenti americani che oggi si uniranno a noi. Siamo tantissimi e “colorati”, e già ci mescoliamo mentre pranziamo nei giardinetti del quartiere. Subito dopo ripartiamo; obiettivo della tratta è quello di arrivare sulla Tiburtina dopo aver attraversato l’Aniene. Piccio e Panagiotis trovano un lungo tubo di plastica bianco e improvvisano un salto con la corda al quale gli americani partecipano con sorpresa e divertimento. Non ho capito come siano entrati in contatto con Piccio che li ha invitati a prendere parte alla camminata, ma sono ragazzi che frequentano a Washington un corso di fotografia e staranno in Italia per un altro paio di settimane prima di partire per Bruxelles. Hanno pressappoco la nostra età e Luca confessa che sarebbe bello fare fotografie a loro che fotografano: sembra che ogni cosa li emozioni, si sciolgono davanti a un vecchio triciclo e si fermano in gruppo davanti a una scuola per immortalarne la vecchia insegna. È un piacere vedere la passione che ci mettono e, come se fosse merito mio, mi sento un po’ fiera di poterli far partecipare alla tratta.
Scavalchiamo una rete sorretta da pali di legno per addentrarci in una zona erbosa confinante con il giardino di un paio di villette. Un pastore con capre e pecore, che scappano nel polverone appena ci avviciniamo, ci chiede se più tardi ripasseremo. «No, non si torna mai indietro». Il tono di Pietro è molto convinto.
Premesso che siamo partiti con un sole splendente in un cielo terzissimo, adesso cominciamo a scappare verso il grande prefabbricato che intravediamo oltre la collinetta perché dietro di noi sta avanzando il temporale. Gli americani corrono e ridono, ma quando riprenderemo a camminare sotto la pioggia un gruppo di loro si avvierà verso l’autobus. Facciamo appena in tempo a disporci in fila sotto la tettoia di quello che, dalle grandi vetrate, sembra essere un ristorante deserto che arriva il diluvio. Il cartoncino bagnato è la traccia che la pioggia ha lasciato sulla mappa. Mentre aspettiamo che spiova chiacchiero con una delle professoresse degli studenti americani. Insegna francese, e mi dpmando se parli un inglese chiaro e lento proprio perché abituata al “dialogo didattico”. Mi chiede cosa stia studiando, come mai non abbia continuato l’università a Firenze, cosa vorrei fare dopo la laurea. Conosce poco Stalker e cerco di spiegarle l’ideologia alla base del nostro percorso. Il mio inglese non è troppo sciolto ma mi si illuminano gli occhi quando alzando le spalle, sorridendo e guardando la pioggia che ancora ci immobilizza esclama «Evenif we don’t walk, it’s Stalker too».
Appena possiamo riprendiamo a camminare verso le villette e i vicoli di San Basilio vecchio. Il quartiere è così “preciso” e grazioso che mi ricorda le case rosse della Garbatella. Continua il maltempo. Pietro, dirigendo il cielo rimbombante, si esibisce nella Sinfonia tuoni e lampi n.2.
Passando da Via Senigallia e Via Fabriano attraversiamo ancora una zona residenziale, con aiuole ordinate e biciclette vicino ai portoni. Per strada non c’è nessuno a causa del maltempo, e mi colpiscono i nomi di città date alle vie perché a molte di loro associo un ricordo piacevole. A Fabriano, in gita con l mia famiglia, comprai un foglio di carta filigranata che regalai alla maestra Cristina.
Noto adesso che Panagiotis e Piccio continuano a trascinarsi dietro il tubo che abbiamo utilizzato per il salto della corda. Sarà lungo tre metri e se ne sono infilati un’estremità ciascuno nella tasca dei jeans. Quando camminano vicini se lo lasciano scorrere dietro come se fosse una rete da pesca, mentre se uno dei due precede l’altro sembrano legati da un lungo cordone ombelicale. Ogni tanto qualcuno inciampa o ci mette un piede sopra, generando l’occhiataccia dei due. Mi fanno venire in mente lo sketch di Aldo Giovanni e Giacomo quando inscenano i passatempi di tre gemelli nell’utero materno.
Per passare da una zona residenziale all’altra attraversiamo un canneto che la pioggia ha trasformato in un lago di fango. Un ragazzo americano mi fotografa le scarpe che ormai hanno una seconda spessa suola di terra, tanto che faccio fatica a camminare.
Attraversata Via Girolamo Mechelli arriviamo in Via Domenico Cosilia, dove in uno spazio sul bordo della strada sono parcheggiate una decina di camper. Lo spirito di curiosità, conoscenza e socializzazione non ci fa esitare e ci addentrarci nell’area di sosta. Fabio, che sotto un tendone sta aiutando la moglie a pulire le trote, si trova circondato, e lo assaliamo di domande mentre guardiamo divertiti i “residui” di giostre sparsi tra le casette. Sono un gruppo di rom sinti giostrai in sosta a San Basilio da 13 anni. Nella bella stagione girano le fiere d’Italia, mentre in inverno si dedicano alla raccolta del ferro. Mi sembra di capire che Giacomo abbia fatto una tesi sui campi rom di Roma, ma non era a conoscenza di questo piccolo aggregato che, prosegue Fabio (del quale noto l’accento calabro-romano) è piuttosto intergrato con il territorio e con gli abitanti del quartiere.
«Non vorresti vivere dentro una casa?»
«No, non siamo abituati. Una casa con terreno magari sì, ma una palazzina..»
Camminando, Michele mi spiega le famiglie rom presenti in Italia. I Sinti giostrai sono gli unici in Italia che mantengono il nomadismo, conservando magari una postazione fissa ma spostandosi per il lavoro estivo. Mi faccio raccontare dei fatti di Testaccio, dove nell’aprile 2007 i rom sono stati sgomberati fuori dal Campo Boario, ovvero dall’area dove iniziarono i lavori per la Città dell’altra economia. Alcune famiglie si spostarono a Saxa Rubra, ma molte di quelle con bambini, che frequentavano le scuole di zona, si accamparono sul Lungotevere fino allo sgombero definitivo dell’anno successivo. I fatti di Testaccio sono stati, nel loro genere, i più “noti” della città. Michele sostiene il fatto che quello fosse il campo rom più centrale della capitale, e che i suoi abitanti avessero stabili rapporti di convivenza con il quartiere. «È stato rotto un sistema che funzionava. Tutto questo è stato paradossale: fare la Città dell’altra economia..dove un’altra economia c’era già!».
Intanto siamo arrivati a Via di Tor Cervara, ampia strada trafficata che ci costringe a camminare in fila indiana. Raccolgo dei frammenti di parabrezza: testimonieranno una viabilità non sempre scorrevole e regolare. Giriamo a sinistra verso i laghi artificiali. Impressionanti. Ci troviamo davanti due laghi che si insinuano tra le cave di tufo e il verde del prato, e il “baretto” in legno sembra completare perfettamente quella che dalla strada sembra un’immagine uscita da Tom Soyer. Anche l’ultima uscita si è conclusa con la nostra ammirazione della cave di tufo lungo la Roma-L’Aquila. Mi impressiona il colore caldo e le forme morbide, il loro ergersi all’improvviso nel nulla; sembrano ponti di roccia dai bordi levigati.
All’incrocio tra Via Cervara e Via Comasta la strada è allagata, e all’iniziale «oooh» di ammirazione segue un «aaah» con arretramento appena un’auto, passando veloce, alza un’onda di acqua non limpida. «This is the best I’ve ever seen!», commenta uno degli americani.
Proseguendo su Via di Cervara intrattengo un'intellettuale conversazione con i due erasmus a proposito dei versi degli animali che cambiano nelle varie lingue. Siamo stanchi, però ora so che il cane e il gatto spagnoli fanno wolf e miau.
Arriviamo alla stazione La Rustica Città e, fra tutti, siamo un po’ provati. Davanti a un cumolo di copertoni abbiamo subito abbandonato l’idea di costruire una piramide che testimoniasse il nostro passaggio e, tra di noi, scema la voglia di concludere la giornata con un aperitivo. Ci accasciamo scompostamente sulle panchine e sul muretto della stazione, aspettando il treno delle 20:05 che ci porterà a Roma Tiburtina. Un gruppo di giovani “autoctoni” ci guarda e ci commenta tra l’ironico e l’incuriosito, e la cosa ci “accende” nuovamente. «Ma guarda che so tutti zozzi de tera!»; «Per me avete scelto il posto più peggio de Roma a stare qua».
Cominciamo a lanciare sfide: salto alla corda? (con il nostro tubo, ovviamente). Tiro alla fune? Ci fondiamo e ridiamo di nuovo mentre ben tre persone riescono a saltare contemporaneamente il tubo che sferza l’aria. Io non salto; questo, davvero, non lo so fare. Intanto però appiccico proiettili, vetri e tappini su un cartoncino ormai umido e mi sento un po’ meno “bambina dell’asilo”.

FRANCESCA

Nessun commento:

Posta un commento