lunedì 4 maggio 2009

Rendiconto narrativo


USCITA 4
25 aprile 2009
Ore 10 stazione metro Rebibbia


Man mano che emergiamo dalla metro ci sediamo sul muretto in mattoncini rossi che costeggia il marciapiede. Alle 10:30 siamo una lunga fila animata, sembriamo un serpente colorato dalle tinte delle nostre magliette primaverili.
Come sempre, molti volti nuovi. Noi del corso di arte civica siamo solo tre, e tra la folla sento una signora che si presenta a Piccio come una vecchia amica della sua mamma. Sono stupita dall’abbigliamento “poco stalkeriano” di Bianca, la nostra psicologa, che prontamente mi spiega come sia il mezzo di rilevamento del suo limite: «Quello che non riesco a fare con la gonna, semplicemente non lo faccio». Mi viene da ridere, e dopo esserci salutate mi scrivo la sua frase sul quaderno.
So che, ad un tratto, smetterò di godermi la deriva. Partire riconoscendo i propri limiti mi rende più consapevole di quello che farò, permettendomi di vivere l’esperienza momento per momento senza pensare alle tappe successive. Penso che, quando sarò stanca, non ci sarà niente di male a salutare e anticipare il ritorno a casa. Convinta di questa nuova opinione, parto sinceramente più rilassata.
Con Giorgio alla telecamera il gruppo è completo e Francesca, del comitato “Salviamo il Gerini”, ci invita a salire le scale che portano alla terrazza sopra la metro. Si anima mentre racconta che lo storico istituto Teresa Gerini, inaugurato nel 1952 e demolito nel 2008 davanti allo stupore degli occupanti sgomberati dalle forze dell’ordine, è il simbolo di un’identità di quartiere che non è stata rispettata. La chiesa, l’oratorio, le scuole medie, i campi sportivi costituivano un’area «culturale, funzionale, pubblica e storica, un momento di aggregazione di una periferia». Scaduta la concessione dell’area ai salesiani, che mantengono ancora il Centro di formazione professionale dei Salesiani di Don Bosco, in Via Tiburtina 994, questa è stata venduta a privati per la realizzazione di cinque centri commerciali. Oggi rimangono solo il grande teatro da 1200 posti e lo sdegno degli abitanti del quartiere, che avvertono la distruzione del Gerini come «un dolore fisico e psicologico». «Noi membri del comitato lottiamo per la tutela di tutto il Gerini, di un corpo unico che pretende di essere salvato anche se è troppo tardi», spiega Francesca mentre ci conduce al civico 986 di Via Tiburtina, dove guardiamo quello che resta della scuola attraverso le lamiere che circondano l’area. Sulle pareti ci sono i segni precisi delle palle d’acciaio utilizzate per la demolizione. «Sembrano bombardati», commenta la ragazza accanto a me. Francesca sembra confermare: «Per noi è come se lo fossero stati».
Durante il percorso verso l’ex istituto siamo preceduti da una macchina con la bauliera aperta, che durante le frequenti soste diventa la postazione di informazione attorno alla quale ci riuniamo per vedere il filmato della demolizione e consultare i vari materiali che il comitato ci ha preparato.
Costeggiando la zona recintata per raggiungere l’Aniene passiamo da Via Rivisondoli, dove una settantina di famiglie aveva appena occupato la scuola materna comunale Ina casa, in disuso da anni. La situazione è piuttosto animata. Cittadini esasperati tentano di “difendere” la loro zona «che sta a diventa’ ‘na merda», mentre dall’altro lato del marciapiede, dietro le sbarre della scuola, una ragazza con i capelli rosa sostiene le ragioni delle 7000 persone che a Roma sono in graduatoria per emergenza abitativa. Proseguiamo. Più tardi sapremo che le famiglie sono state sgomberate dopo che alcuni cittadini hanno dato fuoco a delle vecchie cassette da frutta sul marciapiede davanti al cancello.
La gonna di Bianca ha già svolto il suo ruolo ammonitrice quando, camminiamo lungo il sifone dell’acquedotto dell’Acqua Marcia, tra fango e ortiche, Azzurra tira fuori dallo zaino un sacco di tela dal quale - moderna Mary Poppins - tira fuori gli strumenti più delicati e improbabili per la situazione. Ilaria è euforica, mi torna alla mente il bisogno di esprimersi musicalmente che aveva tanto avvertito durante la precedente tratta. Azzurra e Ilaria indossano cavigliere con grossi campanelli dorati, Luca fa scivolare le dita nelle nacchere, io mi metto in tasca un sonaglio a tre teste, che sembrano contenere semi. Abbiamo deciso - nacchere a parte - di non suonare volontariamente i nostri strumenti, ma di “appoggiarli sul nostro corpo”. Durante il percorso accidentato sarà lui a guidare l’esecuzione musicale, traducendo in suoni le nostre camminate caute, i salti da un masso all’altro, lo scavalco di rivi d’acqua e di cancelli. Camminiamo in fila indiana, e Arianna e Azzurra cominciano a battere le mani con un ritmo sincopato che altri seguono.
Risaliamo sulla strada grazia a una gentilissima famiglia di rumeni, che vive in una baracca di lamiera e ci permette di attraversare la stanza in cui stanno mangiando. Davanti alla porta, perfettamente ordinati sul filo teso tra due pali, mi colpiscono i panni stesi a asciugare.
Costeggiando i vecchi insediamenti industriali della Tiburtina, sotto il sole più che tiepido delle 14, arriviamo a uno spazio verde in cui ci fermiamo per pranzare. Lì ci aspetta Giorgio, che si definisce «un po’ come il prezzemolo» e ci intrattiene sulla storia del nuovo polo tecnologico e della borgata di Case Rosse, verso le quali ci stiamo avviando. Ci spiega i problemi di mobilità della zona: la improbabile metropolitana leggera che dovrebbe collegare la stazione metro Rebibbia con i Mercati Generali, la complanare non fatta, il traffico paralizzante. Per non parlare della fabbrica chimica Basf, ex Engelhard, una delle principali fonti d’inquinamento della città, e delle questioni legate al parco archeologico di Casal Bianco, già approvato ma non ancora realizzato. «Nei miei settant’anni di cose ne ho viste. Ma allo sfascio come ora, Roma non è mai stata».
Riprendiamo a camminare verso il polo tecnologico, che in realtà è un polo commerciale. Tra la sosta bagno al Decatlon e la pausa caffé al bar di un Unieuro deserto nel giorno di festa Maria, antroploga della Nuova Guinea, mi racconta di come ha rifiutato di lavorare per una ditta produttrice di biscotti per bambini che le chiedeva uno studio sul suo giovane target, mentre

Carlotta chiarisce i miei dubbi sui diritti dei figli di coppie non sposate.
Le cave di tufo dismesse, lungo la Roma-L’Aquila, ci colgono di sorpresa. Il gruppo, rispetto alla partenza, è molto diminuito, così riusciamo a salire tutti in piedi sull’alto ciglio della strada per guardare meglio quella che sembra una scultura nella roccia. Sta anche calando il sole; la luce calda e pastosa ci lascia davvero senza parole.
Ci rianimiamo quando Lorenzo ci invita a riprendere il cammino verso il campo nomadi di Salone. Arianna mi ha parlato della assurda rigidità della sua organizzazione, con telecamere ai cancelli e obbligo di esibizione del documento per entrare, ma comincio a essere stanca. Ho visto una fermata dell’autobus poco prima, la raggiungerò dopo aver salutato. Seduta sul numero 40 in direzione metro Rebibbia riprendo a leggere il libro che ho iniziato in metro la mattina. A ogni buca e a ogni curva della strada penso che i sonagli che fino a poco prima sbucavano dalla mia tasca ora avrebbero continuato a esprimere la “musicalità involontaria del mio corpo”.

FRANCESCA

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