martedì 5 maggio 2009

Rendiconto narrativo


29 aprile 2009
Tratta 6

Siamo tra i saggi archeologici dietro a Via Montegiberto, «tra le torri e il vuoto di Fidene», come hanno scritto sul post con le indicazioni del ritrovo della tratta 6.
Abbiamo appena fatto un pic-nic sul basamento di cemento dal quale, tramite una scaletta che scende sottoterra per un paio di metri, si accede a una serie di cunicoli fangosi. Grazie all’aquilone di Fabrizio siamo visibili anche dalla strada che costeggia il cantiere, così che anche i ritardatari riescono a raggiungerci tra le montagne di terra di riporto. Lego il Nastro celeste 2 alla scaletta del basamento e lo leggo. La mia voce rimbomba nella cavità di terra e il nastro di raso si muove col vento; il silenzio di tutti immerge quasi in una dimensione rituale e mi fa pensare che comincio a credere nel valore performativo di un gesto che voglio impegnarmi a rendere costante.
Ieri Piccio ha espresso sul blog del corso di Arte Civica la sua insoddisfazione per i risultati «minimi se non nulli» della parte didattica del corso. Prende atto della passività degli studenti che agiscono senza «comprendere il senso più profondo di quello che si sta facendo, senza portare alcun apporto critico, creativo o meramente conoscitivo» di esperienze che si riducono a camminate. Ci chiede adesso di commentare il suo intervento, e Lorenzo prende parte alla discussione per dire che quello che a noi manca è «il momento del fuoco la sera», occasione di discussione e confronto su ciò che stiamo facendo. Prendo appunti delle cose che vengono dette, consapevole che è proprio adesso che ci stiamo riunendo attorno al nostro “fuoco”.
«Tutti i nostri percorsi si risolverebbero in macchina in dieci minuti. Dobbiamo capire di più a cosa ci serve questo nostro abitare atipico della città». Cosa possiamo far emergere da questa esperienza? Come possiamo raccontare i luoghi scoprendo in noi l’esigenza di condividerli partecipando «in modo più bello», allontanandosi dal concetto di esame? Cos’è che può diventare monumento di ciò che esperiamo? Con questo corso universitario, che si fonde con Stalker e con la sua ideologia, è iniziato “qualcosa”: che fantasie ci ha dato, cosa ci ha aperto? Ognuno di noi avrà sicuramente un modo personale per esprimersi, lasciare tracce, raccontare ciò che lo impressiona. Fare fotografie che poi rimarranno immagini fini a se stesse non è un impegno nella continuità.
Penso che una discussione del genere sia essenziale, anche se arriva con un mese di ritardo. Dopo che la prima lezione in aula, con Piccio che chiese se ci fossero domande, iniziò con un «A cosa servono le nostre camminate?», si doveva intuire subito che i ragazzi che frequentavano il corso “per sentito dire” o semplicemente perché apparteneva all’offerta formativa del secondo semestre avrebbero faticato a entrare nella dimensione di questo nuovo stare insieme. La nostra università è fatta da orari rigidi, lezioni frontali, occhiate all’orologio e quarti d’ora accademici. Mi spiace dirlo, ma per fare in modo che il giro del raccordo anulare non si risolva in una serie di camminate settimanali ho bisogno di entrare dentro un’ottica che non mi appartiene, o meglio, che non appartiene all’università cui sono - e siamo - abituati. Fin dall’inizio volevo impegnarmi a redarre un rendiconto narrativo del nostro viaggio, in modo da avere una “mappatura verbale”, descrittiva, delle nostre camminate. Rileggo le pagine dei primi incontri e noto quanto non avessi coscienza di cosa ambissi a lasciare con le mie descrizioni didascaliche, che oggi mi sembrano sterili e fredde. Ne parlo con Ilaria mentre camminiamo tra il verde che si estende dietro i centri commerciali e i palazzi di Porte di Roma. Mi dice che se comincio a chiedermi come poter rappresentare l’esperienza vuol dire che “sto funzionando”, che gli stimoli del “corso peripatetico di avventura urbana” stanno mettendo radici.
Rimango molto colpita anche dalla chiacchierata con Margherita, che contribuirà ulteriormente a smontare il paraocchi che mi porto dietro. Mi chiede come mai non ci stiamo impegnando a pubblicare sul blog le mappe delle camminate, e mi illudo di ribattere in maniera convincente. Semplicemente, io non so mappare. Non sono capace. Non so visualizzare i nostri percorsi sulla mappa, non so disegnare, non so misurare. Concludo con una perla: «Non sono un architetto!». Margherita si anima. Ogni sua osservazione mi smonterà a poco a poco. Non posso fare a meno di tirare fuori il mio quadernino rosso, e sarà proprio rileggendo le sue frasi appuntate di fretta che troverò il “mio modo di mappare”. Come possiamo dare spazialità a un percorso, rendendolo percepibile? La cartina geografica è solo uno dei tanti strumenti che possiamo utilizzare, il più oggettivo, ma appunto per questo può non essere sufficiente. Ciò che dovremmo riuscire a trasmettere del nostro modo di entrare in contratto con la realtà è “lo spazio nel tempo”. Con il disegno? Con il racconto? Con il collage? È il nostro modo soggettivo di riportare informazioni che ci permetterà di percepire pienamente l’ambiente attraversato. «Ciò che rimane è ciò che mi si è impresso più fortemente. È per questo che è necessario mettere insieme lavori di persone diverse». Mi sento molto poetica, ma mi viene in mente l’ascesa al Monte Ventoso e le parole di San’t Agostino che tanto fanno riflettere Petrarca: «E gli uomini se ne vanno ad ammirare le alte cime delle montagne, i flutti smisurati del mare, i corsi lunghissimi dei fiumi, l’immensità dell’oceano e il moto degli astri, e trascurano se stessi».
E se fino a ora mi fossi limitata a «ammirare» “trascurando” le mie potenzialità? Se mi fossi autolimitata difendendomi con un «non sono capace»? Sinceramente, quella di oggi è la camminata che più mi ha fatto sentire presente in quello che, nelle sue tappe, è un viaggio iniziatici in cui aprirsi a fare azioni “per credo e non per crediti”.

FRANCESCA

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